14.09.22
Un articolo scritto dal Presidente Beniamino A. Piccone per MF.
E’ passato molto tempo da quando nei primi anni Ottanta del secolo scorso l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta creò le condizioni per la nascita dei fondi comuni di investimento mobiliare. Nel marzo 1982 Andreatta, durante l’esame del disegno di legge (approvato poi con modifiche dalla Camera il 23 marzo 1983, Legge n. 77) da parte della Commissione Finanza e Tesoro del Senato, il suo intervento si concentrò sui “mali profondi” del mercato finanziario italiano: la scarsa profittabilità delle società sotto il profilo degli interessi degli azionisti, i comportamenti spesso “poco apprezzabili” degli amministratori delle società, la scarsa trasparenza dei bilanci che non stimolava la fiducia dei risparmiatori.
Andreatta, lucido come sempre, ritenne che l’istituzione dei fondi comuni di investimento (non presenti in alcun modo in Italia) potessero anche avere una funzione stabilizzatrice. A tal proposito il ministro – del governo guidato da Giovanni Spadolini – citò il fatto che nella crisi finanziaria dell’estate 1981 i gestori di fondi erano stati gli unici a non aver perso la calma.
Sul fronte fiscale Andreatta si spese ripetutamente a favore del risparmiatore collettivo – detentore di quote di partecipazione di un fondo, rispetto al risparmiatore individuale che si rivolgeva alla stessa attività.
A distanza di quarant’anni possiamo rilevare come la tassazione dei fondi comuni di investimento e delle sicav sia profondamente scorretta e distorsiva. Infatti le plusvalenze derivanti dalla vendita in profitto di un fondo comune sono considerati redditi da capitale tassati al 26%, ma le perdite sullo stesso strumento sono considerati redditi diversi, impedendo la compensazione tra utili e perdite. In tal modo il risparmiatore di trova a pagare anche quando non ha realizzato alcuna plusvalenza effettiva.
Sebbene in questo terribile 2022 – caratterizzato dal rialzo dei rendimenti obbligazionari e dal calo delle azioni in tutto il mondo – parlare di plusvalenze può sembrare un sogno, proviamoci lo stesso. Se un investitore di lungo termine, su un capitale ipotetico di 200mila euro consegue un profitto di 10mila euro (su 100 mila euro investiti in un fondo azionario globale) e una minusvalenza di 10mila euro (su un fondo obbligazionario high yield dove ha investito 100mila euro), si trova a pagare il 26% di 10mila euro – 2.600 euro – quando di fatto si ritrova ad avere lo stesso capitale iniziale. In questo modo, lo Stato agisce in modo scorretto, tassando anche quando la plusvalenza complessiva non esiste.
Le distorsioni causate da questo sistema si moltiplicano. Infatti una tassazione così composita induce gli investitori a investire in strumenti complessi come i certificati, i cui profitti sono compensabili con le perdite sui fondi. Come ha scritto saggiamente il professor Andrea Resti dell’Università Bocconi, “chi investe in prodotti semplici e trasparenti come i fondi viene così penalizzato dallo Stato: quello stesso ministero dell’Economia che, con una mano, sostiene campagne di educazione finanziaria, con l’altra incoraggia l’acquisto di prodotti più complessi e meno tutelati”.
E’ tempo che il Ministero dell’Economia, invece che costruire le proprie fortune sull’asimmetria tributaria – che impedisce ai risparmiatori di utilizzare le minusvalenze pregresse – adotti comportamenti corretti e responsabili, rivedendo questa distorsione nella tassazione dei fondi comuni di investimento.
Beniamino Andreatta, grande civil servant, sarebbe certamente d’accordo.
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