20-6-22
Una riflessione scritta per Milano Finanza dal Presidente Beniamino A. Piccone, a 10 anni dal “Whatever it takes” compiuto da Mario Draghi, allora in BCE.
A Londra il 26 luglio di 10 anni fa, a Londra alla Global Investment Conference, l’allora presidente della Banca Centrale europea (Bce) Mario Draghi diede un messaggio fortissimo ai mercati finanziari, che nel corso del 2012 avevano messo in discussione l’esistenza della moneta unica e dell’intera costruzione monetaria europea. Erano in molti a non credere nella validità dell’euro come “area valutaria ottimale” e quindi a scommettere sulla “rottura” (break-up) dell’euro, causato dal default di qualche Paese membro. Draghi disse (e fu molto convincente): “All’interno del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto quello che è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”.
L’espressione, ormai famosissima, coniata da Draghi – “Whatever it takes”, entrata anche nell’Enciclopedia Treccani – e le manovre successive della Bce, consentirono di annullare le tensioni destabilizzanti. Poche settimane dopo la Bce annunciò l’introduzione di un nuovo strumento pro-euro, l’Outright Monetary Transaction (OMT), programma di acquisti di titoli di Stato dei Paesi messi sotto pressione dai mercati finanziari. Con l’OMT, la Bce avrebbe potuto comprare una quantità illimitata di titoli dei Paesi più fragili (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, i cosiddetti PIIGS), facendo scendere gli spread e i tassi di interessi sulla parte lunga della curva. Un’innovazione significativa, perché fino ad allora la Bce non si era mai occupata dei tassi a lunga – lasciati alla libera contrattazione sul mercato – ma dei tassi a breve termine.
Due anni dopo, nel 2014, la Bce intervenne di nuovo in modo poderoso deliberando il Quantitative Easing, (QE) un programma di acquisto di titoli obbligazionari, sia governativi, che emessi da privati (corporate bond). Si trattò di un cambio di paradigma volto a ridurre la frammentazione dei tassi di interesse nei diversi Paesi europei e a favorire la crescita dell’inflazione, inchiodata a livelli ben inferiori al target del 2% della banca centrale.
Nella loro storia le banche centrali hanno sempre avuto come obiettivo primario (la Federal Reserve ha anche un secondo obiettivo, la crescita dell’economia) quello di mantenere la stabilità monetaria, ossia il livello dei prezzi. Vedere una banca centrale favorire il rialzo dei prezzi, tramite un aumento dell’offerta di moneta, non si era mai visto.
Ora siamo nel 2022 e la situazione è completamente diversa: 1) l’inflazione in tutto il mondo ha rialzato pesantemente la testa; 2) il conflitto in Ucraina, dopo l’invasione criminale dell’Ucraina da parte della Federazione Russa guidata da Vladimir Putin ha fatto schizzare alle stelle i prezzi di gas, petrolio e frumento; 3) alla guida della Bce non c’è più Mario Draghi (il cui mandato alla Bce si è concluso nel novembre 2019), bensì l’avvocato francese Christine Lagarde, già managing director del Fondo Monetario Internazionale, bravissima in campo giuridico, ma molto meno quando si tratta di politica monetaria e di comunicare le mosse presenti e future della Banca centrale europea.
Le banche centrali in tutto il mondo, probabilmente assopite da un decennio caratterizzato da assenza di inflazione, hanno sottovalutato i segnali inflattivi – già presenti a fine 2021 – e non sono intervenute: non hanno interrotto per tempo gli immensi programmi di politica monetaria non convenzionale. Negli Stati Uniti molte voci sono rimaste inascoltate. Tra queste, quella di Larry Summers, già segretario al Tesoro con Bill Clinton, che contestò nel gennaio 2021 la terza maxi-manovra di sussidi alle famiglie per 1.900 miliardi di dollari.
La Federal Reserve americana, ora guidata da Jerome Powell, in questi mesi, una volta che l’inflazione ha superato l’8%, ha preso atto di essere in ritardo (“behind the curve”, dietro la curva, in gergo tecnico) e ha deciso diversi aumenti dei tassi di interesse – l’ultimo mercoledì sera di 0,75% – portando i tassi di interesse ufficiali nella forchetta 1,50-1,75%. Il mercato sconta ulteriori rialzi nei prossimi mesi, considerando che la domanda negli Stati Uniti è molto forte. In particolare, è sempre più difficile per le imprese trovare persone da assumere, complice anche il fenomeno della “Great resignation” – dimissioni massive da parte di persone alla ricerca di lavori più soddisfacenti. I salari quindi crescono molto, così come il mercato immobiliare, spinto da anni di credito facile e tassi di interesse ai minimi storici. Di fronte alle mosse della Fed, i mercati obbligazionari e azionari americani hanno reagito molto male poiché credono che queste manovre restrittive non siano sufficienti e che portino comunque a una recessione, dopo tanti anni di crescita.
Se negli Stati Uniti l’inflazione è da domanda, in Europa assistiamo a un aumento dei prezzi dovuti a shock nell’offerta (giovedì e venerdì i prezzi del gas sono saliti di oltre il 50% a causa della riduzione delle forniture russe) e delle strozzature legate ai continui lockdown cinesi. Cosa può fare la Bce? Poco, ma un segnale lo deve dare anche per mitigare il rialzo degli spread tra il Bund e i titoli a 10 anni dei Paesi periferici. Il piano annunciato della Bce per ridurre la “frammentazione” è ancora in fase di studio. Troppo poco per questi tempi difficili.
Come ha dichiarato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco le banche centrali in Europa sono cadute nell’errore di inserire nei propri modelli econometrici previsioni completamente fallaci sui prezzi dell’energia. E’ l’ora di agire, anche a Francoforte. Qualche giorno fa la Bce ha annunciato la fine del programma di acquisto pandemico dei titoli (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) e due prossimi rialzi dei tassi per 0,25% ognuno. I tassi di interessi reali, ossia al netto dell’inflazione, permangono ampiamente negativi, ma per la Bce i tempi si fanno complessi perché non è detto che una politica meno accomodante faccia rientrare l’inflazione. Se la guerra prosegue e le materie prime scarseggiano, servirebbe di più, come sostenuto da Francesco Giavazzi, una politica europea che fissi un limite superiore (cap) al prezzo del gas. In regime di monopsonio – un solo compratore, l’Europa che compra il gas russo – il prezzo lo dovrebbe fare chi compra. Non chi vende.
https://www.milanofinanza.it/news/i-possibili-passi-falsi-di-lagarde-a-dieci-anni-dal-qe-2567070
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