Un articolo scritto dal Presidente Beniamino A. Piccone per la Gazzetta del Mezzogiorno.
L’Italia è un Paese dove la Pubblica Amministrazione mette sovente i bastoni tra le ruote dei cittadini e degli imprenditori. Non è stata disegnata per facilitare la vita alla persone, bensì all’ostracismo. Lo Stato, con i suoi uffici kafkiani, è visto come un nemico e, all’alba del 2020, mostra tutti i segni del tempo.
Mentre il mondo accelera vorticosamente – grazie alle reazioni post-Covid – l’Italia pubblica arranca mentre il settore privato in poco tempo ha preso le contromisure, disposto protocolli, attivato linee di azioni. E’ necessario e vitale prendere consapevolezza dei problemi, facendo leva sui punti di forza del Paese – che esistono eccome – per rivoluzione gli apparati burocratici affetti da inefficienza, lentezza esasperante, parassitismo.
Il grande giurista Arturo Carlo Jemolo nel magistrale “Anni di prova” che in Anni di prova rimpiangeva l’Italia di Giolitti: “In questo ricordo della burocrazia del tempo di Giolitti ravviso ancora un elemento comune con la scuola: l’idea del servizio. Si sa che la burocrazia non è un fine a se stessa, è al servizio del Paese; chi domanda informazioni, chi inoltra reclami magari infondati, chi avanza denunce o proteste, non è un seccatore, è il cittadino, il nostro padrone”.
Se queste premesse, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – appena confrontatosi sia con Nicola Zingaretti, leader del Partito Democratico, suo alleato di governo – ha dichiarato che bisogna “osare” e ha intenzione di portare all’approvazione del prossimo Consiglio dei ministri un “decreto semplificazione”, con all’ordine del giorno il codice degli appalti (mentre parliamo del Ponte sullo Stretto, vicino casa mia sono passati quattro anni dall’inizio della realizzazione di una pista ciclabile, non ancora completata), la riforma dell’abuso d’ufficio, misure di semplificazione digitale (lo smart working deve essere efficace, non un modo per eludere il servizio al cittadino, come ben ha sostenuto Pietro Ichino).
Semplificare significa togliere, rendere agile il contesto economico e civile. Speriamo che nuove norme non appesantiscano il corpus esistente. Mentre nei Paesi del Nord Europa sono in vigore circa 5.000 leggi, qui in Italia ne abbiamo, stimate, oltre 150mila, 30 volte tanto. E come si fa ad adempiere a tutte queste leggi-ginepraio? Impossibile. Il cittadino è quindi considerato un suddito, da vessare.
Noi ci accontenteremmo di norme leggibili. La burocrazia è un Moloch irriformabile anche nel linguaggio, astruso e gattopardesco. Italo Calvino nel 1965 prese in giro il burocratese imbalsamato e constatò l’esistenza dell’antilingua: “Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli di amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlando nell’antilingua. […] Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago o sfuggente”.
Come scrisse Natalia Ginzburg nel 1981, “La nebbia è salita al potere, essa è il potere; e la gente si sottomette alla nebbia, e a contemplare la vita pubblica come qualcosa di contorto, di inestricabile e di sibillino. E tuttavia, quando appare un lampo di chiarezza, ci si sente rivivere”. Se non approfittiamo della discontinuità del Coronavirus per riformare il nostro apparato normativo e burocratico, forse non avremo un’altra occasione. Favoriamo il merito e facciamo lavorare le intelligenze, numerose, presenti nella pubblica amministrazione.
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