Un articolo del Presidente Beniamino A. Piccone scritto per One Listone Giordano, il magazine informativo dal mondo Listone Giordano.
Da “banchiere umanista”, Raffaele Mattioli, alla guida della Banca Commerciale dal 1933 fino al 1972, incontrava non solo uomini di banca ma anche letterati, poeti, storici con cui poi proseguiva la serata nella sua casa di Via Bigli, salotto illuminista, come racconta Riccardo Bacchelli nelle “Notti di via Bigli” (a cura di Marco Veglia, il Mulino, 2017).
E’ opportuno ricordare il ruolo giocato da Mattioli per lo sviluppo della casa editrice Riccardi fondata a Napoli nel 1907 da Riccardo Ricciardi, che fin dall’inizio della sua attività si distinse per serietà culturale e per eleganza tipografica. Nel 1938, alla Casa editrice si associava Raffaele Mattioli e dal nuovo impulso che ne derivò nacque una serie di opere insigni (da Benedetto Croce agli scritti politici di Giovanni Amendola). Alcuni anni dopo Raffaele Mattioli trasferisce le attività della Casa Editrice a Milano ed inizia la pubblicazione della principale collana della Ricciardi, “La Letteratura italiana. Storia e testi”, nata sotto gli auspici del Croce e diretta da Pancrazi, Schiaffini, e dallo stesso Mattioli che prevedeva l’edizione di settantacinque testi letterari suddivisi in sette sezioni, dalle origini al primo Novecento e di sette volumi di storia della letteratura e bibliografia. Dirette rispettivamente dallo Schiaffini per le Origini e il Duecento, Sapegno per il Trecento, Spongano per il Quattrocento, Getto per il Seicento, Fubini per il Settecento e Bacchelli per l’Ottocento e il Novecento.
Come ha scritto di recente lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua “la letteratura è un’arte che, mediante il linguaggio, rende il lettore compartecipe di un’importante esperienza interiore al fine di suscitargli un appagamento estetico”. E’ senz’altro un afflato che Mattioli condivideva in tutto per tutto.
Mattioli diede una grossa mano a Giulio Einaudi negli anni difficili del fascismo, quando ogni giorno la casa editrice allo stato nascente si vedeva privata dei suoi uomini migliori. Pavese al confino, Mila e Foa in carcere, Ginzburg morto a Regina Coeli per le torture, Giaime Pintor saltato su una mina. Mattioli, allora amministratore delegato della Banca Commerciale italiana, lo aiutò finanziariamente (“Qui hanno messo dentro tutti della casa Einaudi”) e non, concedendogli anche il simbolo dello “Struzzo” con un chiodo in bocca e con la scritta “spiritus durissima coquit”, “lo spirito, insomma, la cultura, può aiutare a digerire anche i tempi di ferro che stiamo attraversando”.
Carte del Fondo Restituzione Antonini presso l’Archivio Banca Commerciale italiana riportano che nel 1950 Mediobanca rifiutò ad Einaudi un cospicuo finanziamento in quanto la casa editrice era ditta individuale e quindi esisteva un evidente squilibrio fra mezzi propri e capitale sociale.
Il banchiere di Mediobanca Enrico Cuccia rispose negativamente così: “Egregio dr. Einaudi,…come Le avevo fatto prevedere, è da escludere la concessione di una finanziamento a medio termine ad una ditta unipersonale. D’altra parte, però, una trasformazione giuridica dell’azienda metterebbe ancora di più in evidenza il problema del rapporto tra i mezzi propri ed i mezzi dei terzi, sottolineando la necessità di procedere in primo luogo ad una sistemazione del capitale dell’impresa”.
Grazie alle ricerche dello storico Sandro Gerbi, possiamo dire che proprio nel 1955 nel “Notiziario Einaudi” – in un articolo forse steso da Italo Calvino e intitolato “La responsabilità dei lettori e i problemi dell’autonomia editoriale” – si ammetteva che la casa editrice aveva attraversato “periodi difficili”; senza però “mai deflettere dalla sua linea d’azione, ispirata al proposito di contribuire al consolidamento e al rinnovamento della nostra cultura”. Orgogliosamente si sosteneva che “il problema posto da una gestione editoriale non è e non può essere considerato come un problema puramente economico”. Perché all’attività editoriale competevano ben altre “responsabilità” e “dignità”.
I banchieri investono i denari dei depositanti. Devono quindi procedere – nella politica del credito – con “sana e prudente gestione”. La cultura crediamo quindi che debba essere finanziata da enti non profit, come per esempio le fondazioni, non dagli istituti di credito, che devono attenersi meramente al conto economico e allo stato patrimoniale, e quindi spessissimo sono costrette a negare i finanziamenti a iniziative culturali di grande valore.
Sono da applaudire quindi quegli imprenditori che – invece di spendere ingenti risorse nel calcio – dedicano risorse all’arte e alla cultura. Mi vengono in mente Marino Golinelli – che a ottobre compirà 100 anni! – che ha creato e sviluppato una marea di iniziative con la Fondazione Golinelli e il tandem Miuccia Prada- Patrizio Bertelli con la Fondazione Prada. Mattioli, nel criticare il credito agevolato, definì (nel 1962) alcuni imprenditori “senescenti minorenni”.
All’indomani delle forzate dimissioni di Mattioli dalla Comit – sostituito su indicazione di Giulio Andreotti dal piduista Gaetano Stammati -, il Governatore di allora di Banca d’Italia, Guido Carli , il 30 aprile 1972, in un articolo per L’Espresso con lo pseudonimo di “Bancor”, scrisse: “Raffaele Mattioli li ha giudicati (gli industriali italiani, ndr) nella maggior parte dei casi impari al compito gravoso che avrebbero dovuto assolvere in un paese così complesso com’è il nostro: impari per cultura, per fantasia e per coraggio. Li ha quasi sempre aiutati, ma li ha quasi sempre guardati con sospetto”.
Tempo fa lo storico Marco D’Eramo: “In Italia ci sono moltissimi ricchi, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d’oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt’al più calciatori.
L’assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote – sembra un’ovvietà – nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».
Ecco, il punto è proprio l’assenza di una classe borghese. Ci sono i ricchi, ma non la classe dirigente. Una notte, in via Bigli, a casa Mattioli, negli anni Sessanta, il banchiere elogiò davanti a Riccardo Bacchelli l’importanza del parlare franco, della parresia, della ricerca della verità, che nasce dal dialogo fitto e dal contraddittorio. E concluse così: “Io amo i collaboratori, non gli yes-man, perché dovrei pagare qualcuno che la pensa come me?”.
In chiusura vogliamo parlare di un esempio positivo: proprio dove sorgevano gli uffici della Banca Commerciale di Mattioli, in piazza della Scala, sorgono oggi le Gallerie d’Italia, finanziate da Intesa Sanpaolo, quando alla presidenza c’era l’illuminato Giovanni Bazoli, formidabile banchiere, scelto da Beniamino Andretta e da Carlo Azeglio Ciampi per salvare il Banco Ambrosiano nella difficilissima estate del 1982. L’ultima splendida mostra “Canova e Thorvaldsen” è la dimostrazione che i banchieri possono ancora dare il loro contributo alla cultura.
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