Un articolo scritto dal Presidente Beniamino A. Piccone per la Gazzetta del Mezzogiorno.
Un modello di sviluppo completamente sbagliato
la necessità di un’economia inclusiva, non estrattiva: l’imprenditore merita una legittimazione sociale superiore al rentier che incassa affitti con il beneficio della cedolare secca.
Il nostro Paese stenta a crescere da molti anni. Indipendentemente dal Covid. Quando arrivano i problemi per tutti, noi facciamo sempre peggio perché arriviamo al dunque con problemi irrisolti. Dopo le scelte formidabili del Dopoguerra – quando la classe dirigente vedeva nella stanza dei bottoni personaggi del calibro di Einaudi, De Gasperi, Menichella, Baffi e Vanoni – negli anni Settanta, purtroppo il modello di sviluppo scelto dalle classe dirigenti si è basato su debito pubblico (deficit su deficit per “comprare” gli elettori), inflazione (che premia i rentier e i detentori di patrimoni immobiliari) e svalutazione (che impoverisce un Paese, costretto a pagare di più le merci e i servizi che importa). Invece di puntare su un modello inclusivo basato sul funzionamento delle istituzioni e su un sistema scolastico in grado di favorire la mobilità intergenerazionale, si è scelto un modello estrattivo (vedasi Acemoglu-Robinson Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore), che favorisce i proprietari terrieri e chi sta sul divano incassando le cedole sui BTP.
Ci rendiamo conto che un imprenditore che si fa il mazzo 15 ore al giorno ha una legittimazione sociale molto inferiore a un milionario che ha ereditato un palazzo cielo terra che gli consente di incassare affitti mensili tassati favorevolmente con cedolare secca al 21%? Vogliamo parlarne?
Come si fa a favorire l’innovazione se il lavoro è tassato il doppio (il quadruplo dei Titoli di Stato) della rendita immobiliare? Come ha saggiamente scritto lo storico dell’economia Emanuele Felice, il pesantissimo debito contratto negli anni Settanta e Ottanta (quelli della “Milano da bere”, quelli della “nave va” di Bettino Craxi) che ci portiamo dietro ancora oggi “non è diretto al potenziamento dell’istruzione e della ricerca, né al miglioramento del welfare, né delle infrastrutture (non autostrade, ma fibra!, ndr); ma drogato dalla corruzione (e al sud spesso dalla malavita), finisce per deteriorare ulteriormente le nostre istituzioni; oltre che l’etica del bene pubblico e dell’imprenditorialità (quel che in gergo si chiama “capitale sociale”)”.
Negli anni Novanta con l’adesione all’euro le svalutazioni non sono più possibili (meno male) e la forza della competizione asiatica costringe a rafforzare la competitività dei sistemi Paese. E qui casca l’asino perché conta la bontà delle leadership dei singoli Paesi. E noi italiani su quel fronte siamo pesantemente fragili. Siamo messi così male che esistono ancora leader – uno per tutti, Matteo Salvini – che si circondano di consiglieri economici – Borghi e Bagnai, per non fare nomi – che invocano il ritorno alla liretta, al magico mondo della svalutazione e dell’inflazione galoppante che fa salire i prezzi delle case e alimenta la spirale prezzi-salari. Torna utile ricordare il monito di Paolo Baffi, indimenticato governatore della Banca d’Italia: “l’inflazione è la tassa più ingiusta perché colpisce deboli e indifesi”.
Il Think tank tedesco Cep (Centre for European Policy) di Friburgo nel febbraio dell’anno scorso pubblicò una ricerca (“20 anni di Euro: vincitori e vinti”) dove si intese dimostrare – in modo non convincente – come l’euro sia un generatore di disuguaglianze. Secondo lo studio il problema della competitività tra i vari Paesi dell’Eurozona “rimane irrisolto e deriva dal fatto che i singoli Paesi non possono più svalutare la propria valuta per rimanere competitivi a livello internazionale;…la Grecia e l’Italia, in particolare, stanno attualmente attraversando grandi difficoltà a causa del fatto che non sono in grado di svalutare la propria valuta”. Ma meno male che non possono! La forza di un Paese deriva dall’innovazione, dal funzionamento delle istituzioni, non dalla droga del debito e delle svalutazioni. Quel tempo è fortunatamente finito e non tornerà mai più. I nostalgici della lira sono come coloro che rimpiangono la puntualità dei treni ai tempi del Duce.
La qualità della spesa si rivela decisiva. Se nell’ambito del Recovery Fund si decide di stanziare 9 miliardi per il Cashback (premi a chi paga con la carta di credito, che favorisce i ricchi), non andremo molto lontano. E figli e nipoti vedranno il debito sopra la loro testa aumentare a dismisura. Al contrario di quello che pensano Di Maio & C., il debito va pagato.
Non ci sono scorciatoie, se non nel mondo di utopia.
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