Il 10 aprile il presidente dell’APE Beniamino Piccone ha conferito il premio APE per la saggistica a Giuseppe Berta, professore associato di Storia Contemporanea all’Università Bocconi, autore del volume “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino, 2016)
Berta, laureato in Lettere nel 1975 all’Università Statale di Milano, ha scritto nel passato volume pregevoli che hanno illuminato la storiografia italiana. Ricordiamo i più recenti, La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione (il Mulino, Bologna 2015), Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità, Roma, Edizioni di Comunità, 2015; Oligarchie. Il mondo nelle mani di pochi (il Mulino, Bologna 2014).
Già dal titolo di questo interessante volume pone al lettore una domanda che inquieta. La mente vola subito alle grandi imprese che hanno segnato il nostro sviluppo economico del secolo scorso: Olivetti, Farmitalia, Montedison, Italcementi, Pirelli. Alcune scomparse, altre passate in mano straniera. La Fiat è sempre italiana ma ha trasferito la sede e il centro dei suoi interessi all’estero.
In questa desolazione, dopo la crisi dei sette anni, dal 2008 al 2015, ci si chiede come l’Italia possa colmare il divario continuo che accumula verso i suoi pari europei. E Berta risponde che “senza mappe non si va da nessuna parte”.
E il capitalismo di matrice pubblica? Rimangono certo ENI, ENEL, ma l’IRI è stato liquidato dopo il noto accordo Andreatta-Van Miert del 1993. Berta scrive che, dopo la liquidazione dell’IRI, “Soppressa l’economia mista, era inevitabile che l’Italia ne scontasse gli effetti sul piano della propria capacità di crescita, fino al limite estremo del collasso del proprio modello di capitalismo”. E’ veramente stata soppressa l’economia mista o il capitalismo pubblico municipale – con meno investimenti e più spesa corrente – l’ha fatta rivivere con meno pregi e più difetti?
Pierluigi Ciocca, nel riassumere le ricerche sulla storia dell’IRI, scrive che due debolezze non fanno una forza, che uno Stato onnivoro è il contraltare dell’assenza di grandi imprese: «Quella dell’IRI è la storia dell’incapacità della zona alta del capitalismo italiano di farsi carico del progresso economico del paese. Con l’IRI, lo Stato dovette chiudere la falla aperta dal dissesto della grande industria, e quindi della grande banca, nelle mani di privati dimostratisi impari al compito. L’alterna successiva vicenda del gruppo pubblico può essere letta come il riflesso della debolezza strutturale, del difetto di egemonia, della grande impresa privata».
Nel leggere Berta mi sono tornate in mente le Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi del 1978: “La più grave crisi economica, finanziaria e industriale del dopoguerra ha fatto emergere, dopo il 1973, le insidie latenti in una siffatta stratificazione di scelte, rivelando quanto rigido e precario fosse l’assetto che si era venuto creando, quanto incerto fosse l’orientamento tra ragione del mercato e ragione amministrativa; tra esigenze di socialità ed esigenze produttive; tra esercizio della proprietà pubblica e funzione di controllo; tra momento del rischio e momento della garanzia; tra settore pubblico e settore privato; tra controllo politico, controllo economico, controllo amministrativo e controllo giudiziario. Da questa crisi di criteri operativi, l’economia italiana non potrà uscire senza una riflessione nuova e sistematica sulle sue regole fondamentali di economia mista; senza un riesame che miri a definire la qualità e i modi dell’intervento pubblico nell’economia, non meno della sua dimensione; senza il contributo dell’intelligenza economica come di quella giuridica”.
Anche Berta conclude, come Emanuele Felice, premiato l’anno scorso dall’APE per il volume “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia” affermando che la chiave di volta sta nel sistema politico, che non ha favorito un’economia su due binari complementari, quella pubblica e quella privata. La classe politica ha compiuto infinite invasioni di campo, non ha creato il terreno fertile per lo sviluppo delle elite. Nelle parole di Berta “il dilemma dell’Italia riconduce allo stesso punto: alla possibilità che possa sussistere un equilibrio fra politica ed economia, senza che se ne confondano i confini e si moltiplichino le occasioni di collusione”.
L’anno scorso avevamo citato Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana e lo rifacciamo volentieri. Il miglior banchiere italiano, nel 1972 scrisse: “Nel momento stesso in cui si vorrebbe poter già sapere chi si assumerà domani compiti di direzione e di guida […] appare indispensabile e in qualche misura preliminare, cercare di capire su che cosa il Paese si sia retto sinora, quale sia stato sin qui il suo tessuto connettivo, attorno a quali forze esso si sia ritrovato e in che misura. […] Tutto il periodo [dall’Unità al secondo dopoguerra] può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi diretti a dar finalmente vita ad una classe dirigente adeguata” (citato dal curatore Fabrizio Barca in Storia del capitalismo italiano, Donzelli, 1997).
Berta nella terza parte del volume si chiede “che cosa resti in piedi del capitalismo italiano”. A fronte di un processo di destrutturazione del capitalismo delle grandi imprese storiche, si osserva l’ascesa di imprese dal profilo intermedio, le medie imprese, che “incarnano quanto di nuovo e di più solido è venuto coagulandosi all’interno dei territori dove è ramificata la presenza dell’imprenditorialità”.
Forte dei dati di Mediobanca-Unioncamere, Berta sottolinea come il numero delle medie imprese sia complessivamente diminuito nel periodo decennale 2004-2013, attestandosi sotto le 4mila unità. Le medie sono un fenomeno del Nord Italia (Lombardia in testa). Poche le presenze nel sud. Sempre maggiori sono i casi di controllo in mano estera. Incessante il processo di ricambio. Solo il 51% (1.669 imprese) è consistente nel tempo.
Il decennio risulta nettamente positivo: l’aggregato delle imprese imprese ha raggiunto risultati di rilievo, ha “reagito con maggiore velocità alla crisi e ha avuto tempi di recupero più rapidi”.
La dimensione urbana
Berta riprende una ricerca della Banca d’Italia dove si legge che “una delle caratteristiche salienti dello sviluppo economico è la sua dimensione marcatamente urbana”. Negli States il 60% del pil nazionale è prodotto nelle 52 aree metropolitane più grandi.
Bankitalia: “La rilevanza delle aree urbane nello sviluppo economico di un paese è legata al fatto che la produttività dei lavoratori e delle imprese è più elevata nelle città, anche in ragione della maggiore concentrazione del capitale umano nei centri urbani. Anche in Italia le città attraggono, infatti, persone a più elevato livello di scolarizzazione”.
Si può tornare sul sentiero di sviluppo?
Berta è scettico: “Non basteranno le locomotive emerse dal retroterra dei distretti industriali nè le più virtuose delle medie imprese, le multinazionali di dimensioni contenute che navigano ormai con sicurezza nei mercati internazionali, a cambiare il ritmo lento a cui marcia l’economia italiana. Non dispongono della forza sufficiente per disseminare i loro stimoli allo sviluppo in una società che risente troppo poco della loro presenza e che sovente nemmeno avverte la portata effettiva e l’efficacia delle loro azioni”.
Un’economia intermedia
Berta scrive: “Le imprese italiane sono distanti dai vertici dell’economia internazionale. Stanno a loro agio in una fascia più bassa, in cui praticano il presidio di segmenti particolari o di snodi cruciali del ciclo del prodotto: non sono e non possono essere incarnazioni di un capitalismo che oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi….non si può chiedere alle nostre imprese di essere qualcosa di più e di diverso rispetto a quanto sono…Ormai dovrebbe essere chiaro che l’Italia non è fatta a misura delle grandi imprese”.
Le medie imprese non ci salvano, da sole, dalla decadenza economica, però incorporano un potenziale di sviluppo, che va assecondato. Bisogna rafforzare le chance di carriera dei lavoratori della conoscenza che necessitano di piattaforme digitali di cui l’Italia difetta.
Berta chiude il suo bel volume invitando l’Italia economica a ridimensionare l’immagine di sè e delle sue aspettative. Ci vorrebbe un downgrading autoimposto, un ripiegamento, un passo del gambero, premessa per riguadagnare una direzione corretta.
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