Una riflessione scritta dal Presidente Beniamino A. Piccone, con un suo allievo della Liuc-Carlo Cattaneo – Edoardo Mauro, pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno.
Nei giorni scorsi a Bologna, la Guardia di Finanza ha denunciato dieci persone che, sebbene sottoposte a misure carcerarie percepivano il reddito di cittadinanza (RdC). A Bari, un uomo è stato arrestato per usura: anche lui percepiva il RdC. In Provincia di Lecce, una donna è sotto accusa perché percepiva il RdC nonostante un patrimonio. La procura di Lecce ha contestato alla donna false dichiarazioni sulle sue condizioni reddituali, dato che la donna aveva fornito un’attestazione Isee non corrispondente al vero.
Il colmo dei colmi è stata la scoperta da parte della Guardia di Finanza di Palermo che il RdC finanziava attività di esponenti di Cosa Nostra in Sicilia. I finanzieri siciliani hanno individuato ben 145 soggetti con precedenti condanne per mafia che hanno percepito il Rdc (per un totale di 1 milione e 200 mila euro) non avendone diritto. Non si può che concordare con Maria Falcone, presidente della Fondazione Giovanni Falcone: “L’ennesima scoperta che decine di boss condannati percepiscano il reddito di cittadinanza impone una riflessione seria. Il meccanismo dell’autocertificazione e l’assenza di controlli preventivi producono storture gravissime”.
Di fatto i percettori del RdC possono essere degli evasori o soggetti non idonei a beneficiarne. La conferma è venuta proprio dall’Inps, che eroga il RdC. A seguito di alcune polemiche tra l’attuale presidente Pasquale Tridico ed il suo predecessore Tito Boeri, l’Inps ha evidenziato che “non è possibile fare alcuna deduzione scientificamente affidabile circa l’inclusione di possibili evasori”. Una dichiarazione che pone molti dubbi riguardo il funzionamento del RdC, nato per “eliminare la povertà” ma costruito volutamente in malo modo così da poter includere il maggior numero di persone possibili (quindi avere il massimo beneficio in termini di consenso elettorale).
Facciamo qualche esempio per far capire al lettore l’insostenibilità del Rdc. Il software sviluppato da Mimmo Parisi, nominato dal M5S a capo dell’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, in precedenza guidata con ben altra competenza dal professor Maurizio Del Conte), attribuisce un valore alla provenienza geografica e sociale del lavoratore: se abiti in campagna e sei figlio di contadini, con ogni probabilità farai il contadino e quindi il sistema, tramite i navigator, ti proporrà di fare il mungitore. Morale: sembra di trovarsi in India nel mondo delle caste.
Non è finita. Colui che chiede il RdC, prima prende il sussidio (senza alcuna verifica dei requisiti, è sufficiente l’autocertificazione nel Paese del mendacio), poi gli viene offerto un lavoro entro 100km, che si può rifiutare. Allora se ne propone uno entro i 250km, e poi uno in Italia. Solo se rifiuti il terzo, perdi il sussidio, ma ormai sono passati mesi o anni. Poi la giostra riparte con una nuova richiesta. Talmente hanno avuto successo i navigator che a fine 2020 se n’è decretata la fine. Nonostante i proclami, i risultati hanno rivelato una triste realtà: tra i beneficiari del Reddito di Cittadinanza, sono bel pochi coloro che hanno trovato un’occupazione vera non estemporanea.
Quando l’economia intraprende un percorso fatto di politiche assistenziali, i risultati il più delle volte disattendono le aspettative. Se fosse vero che dalle crisi nascono i grandi cambiamenti, i tempi sono ormai maturi per invertire la rotta. Come suggerisce Pietro Ichino nel suo libro “L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore” (Rizzoli, 2020) non dobbiamo temere la globalizzazione ma attirare imprenditori, capitali e investimenti produttivi. Occorre offrire strumenti di aiuto alla ricerca dell’impiego, seguendo l’esempio dei Job Advisor del Centro e Nord-Europa, dove figure professionali con due o tre anni di formazione specialistica post-laurea accompagnano il disoccupato nella ricerca di un lavoro coerenti con le competenze distintive. Deve immaginarsi un nuovo modello di sindacato, non arroccato nella difesa di posti di lavoro che non esistono più, bensì favorevole alle nuove imprese, che posso anche fallire (è il mercato, bellezza). Non possiamo accettare il fatto che oggi l’80% dei laureati, secondo un’indagine di Alma Laurea, sogna un posto fisso da dipendente perché teme di essere abbandonato (o addirittura osteggiato) quando vorrà sviluppare la propria idea imprenditoriale.
Non abbiamo bisogno di illudere le persone senza lavoro. È il momento di intraprendere in modo serio una riforma delle politiche attive del lavoro, che prevedano la tutela del lavoratore e non del posto di lavoro, quando questo non è più sostenibile.
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