Una riflessione del Presidente Beniamino A. Piccone per la Gazzetta del Mezzogiorno
La demografia, scienza esatta non ascoltata
Tra tutte le scienze, la demografia, nonostante sia la disciplina più preveggente, è la meno ascoltata. La cosa è molto grave visto che siamo il paese più anziano d’Europa e il secondo nel mondo. L’Istat ci ha comunicato settimana scorsa che siamo scesi sotto la soglia dei sessanta milioni di abitanti. Ma dopo un breve passaggio sui giornali, si parla d’altro, come se il futuro del nostro Paese non interessasse. Visto che sono sempre meno le donne in età fertile, al di là della propensione ad avere figli, nei prossimi anni il numero dei nuovi nati tenderà a calare inesorabilmente. Nel 1964, in pieno boom economico, i nuovi nati furono oltre un milione (1.016.120, per la precisione). Nel 2020 sono stati solo 401.104, mentre i decessi – aumentati anche a causa del Covid-19, sono risultati 746.146. Un saldo negativo di 342mila, dato superato solo nel 1918 (648 mila unità a causa dell’influenza spagnola). Ma l’italiano non guarda al di là del suo naso. Così la classe dirigente, indifferente al monito di chi sa. Nel 1989 Paolo Baffi, dopo una lunga vita in Banca d’Italia, forte della sua conoscenza statistica che gli derivava dagli studi con Giorgio Mortara – direttore dell’Istituto di Statistica all’Università Bocconi – intervenne sulla Stampa con una riflessione dallo sguardo lunghissimo, dove traguardava il secolo a livello demografico: “Le grosse coorti di nati nel ventennio 1945-1965 toccheranno l’età della pensione nel primo quarto del prossimo secolo. In quel torno di tempo, sia l’indice di vecchiaia (vecchi/giovani) sia l’indice di dipendenza degli anziani (vecchi/adulti) della popolazione europea segneranno purtroppo una nuova impennata. […] Gli equilibri di mercato non soffriranno dunque di un effetto di domanda, bensì di una possibile carenza di offerta del fattore produttivo lavoro. In una condizione siffatta, l’immigrazione si presenterà come un meccanismo riequilibrante, un innesto naturale che sarà attivato dalle chiamate delle imprese produttive (e delle stesse famiglie)”. Senza gli immigrati presenti nelle nostre industrie e senza le badanti filippine per i nostri nonni come faremmo? Arrivati al primo quarto del XXI secolo, vediamo che la previsione di Baffi si verifica appieno, smentendo clamorosamente Ernesto Galli della Loggia, che scrisse: “I fenomeni sociali evolvono in modo relativamente prevedibile nel breve-medio periodo ma in modo assolutamente imprevedibile su quello medio-lungo […], il nostro sguardo e il nostro cervello sono, diciamo così, tarati per vedere da vicino o relativamente da vicino, non a distanza di decenni” (La libertà che l’Europa assicura, in «Corriere della Sera», 20 settembre 2015). Nel luglio 2015 il Rapporto Svimez immaginò uno stravolgimento demografico con il Sud d’Italia destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi cinquant’anni, a fronte di una crescita di 4,6 milioni nel Centro-Nord, arrivando così a pesare per il 27% del totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%. Il tasso di fecondità al Sud continua a scendere, arrivando a 1,25 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica, e inferiore comunque all’1,31 del Centro-Nord (anche grazie alle donne immigrate). Un tempo al Sud si facevano molti più figli che al Nord. Ormai vincono le variabili economiche: quando le donne lavorano, fanno figli, anche in presenza di asili nido e servizi per l’infanzia. Dove non c’è sviluppo economico, manca la fiducia nel futuro – come scrive il direttore De Tomaso – e quindi langue il desiderio di natalità. La chiave di volta è far crescere l’occupazione femminile altrimenti, parafrasando Adriano Celentano, “chi non lavora, non fa figli”.
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