Una riflessione per la Gazzetta del Mezzogiorno scritta dal Presidente Beniamino A. Piccone.
La crescita economica – che manca – è il male del nostro Paese. Il Covid-19 e la pandemia che è seguita hanno solo esacerbato il problema, che si protrae dalla fine del secolo scorso. La politica, incapace di affrontare le nostre debolezze strutturali, ha mostrato i suoi limiti, per cui ogni volta il presidente della Repubblica di turno è costretto a chiamare un “podestà forestiero”, si chiami Mario Monti o Mario Draghi. L’economista Nicola Rossi nell’ormai classico “Meno ai padri, più ai figli” (il Mulino, 1997) sintetizzò così: “Una generazione composta in buona misura da cavallette. Politici – a destra come a sinistra – che hanno fatto quanto potevano per impedire (e ci sono riusciti!) che si facesse a tempo debito quanto poteva dare ai più giovani prospettive meno incerte”.
Se allarghiamo lo sguardo a livello storico, possiamo dire che “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Infatti nel 1.600, al termine del Rinascimento, l’Italia, dopo un meraviglioso periodo di crescita, imboccò la strada del declino. All’inizio del Seicento, gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del pianeta, nonostante le guerre che avevano segnato il secolo precedente. Secondo le stime di Angus Maddison, il prodotto pro capite annuo, valutato ai prezzi internazionali del 1990, era pari a 1.100 dollari, un valore doppio della media mondiale, superato solo nei Paesi Bassi. “Tre generazioni più tardi – ha scritto il principe degli storici economici, Carlo M. Cipolla – l’Italia era un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di manufatti ed esportare di prodotti agricoli, dominato da una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari”. La stagnazione proseguì nei decenni successivi e nel 1820 il PIL pro capite era fermo al livello di due secoli prima.
Quali le ragioni di questo “lungo gelo” dell’economia italiana? Vi erano fattori esterni, come il collasso dei principali mercati di sbocco dei prodotti italiani del tempo, ma per Cipolla le ragioni erano soprattutto interne: salari non coerenti con la produttività del lavoro, un elevato carico fiscale, un difetto di capacità imprenditoriale che impedì di cogliere i mutamenti nella domanda.
Cipolla ci indica la strada nel suo passaggio chiave: “Il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera”.
Vogliamo parlare di una corporazione tra le più conservative in assoluto? Il pubblico impiego, che vive di diritti e non ha spesso alcuna consapevolezza dei doveri. Non avendo letto “Doveri dell’uomo” di Giuseppe Mazzini, si bea di eccessi di diritti, attua il “dirittismo”, invoca ad ogni piè sospinto aumenti di stipendio legati alla produttività, buoni pasto anche se è in smart working, premi di risultato al 100% per tutti. La Pubblica Amministrazione è impermeabile ad ogni processo di valutazione. Non accetta la misurazione dei risultati. Per molti impiegati la vita finisce con l’assunzione, (magari ope legis, senza aver superato il concorso) a cui seguono casi di assenteismo inaccettabili.
Cosa pensare di quegli infermieri che rifiutano di vaccinarsi, invocando il diritto alla libertà di scelta? E degli insegnanti che fanno tutto il possibile per annacquare e sabotare i test Invalsi, sola possibile misurazione oggettiva dell’efficacia dell’insegnamento? Cosa dire di un magistrato che si prende dodici mesi (12!) per scrivere le motivazioni di una sentenza?
Ora che stanno per arrivare ben 209 miliardi del Recovery Fund, scopriamo che le strutture dello Stato non hanno le competenze necessarie per investirli in maniera produttiva. Siamo pieni zeppi di giuristi, quando mancano ingegneri, geologi, economisti, informatici. Sarebbe il caso, per una volta, di prevedere un meccanismo di reclutamento rapido di persone capaci, con remunerazione di mercato. La chiamata diretta dovrebbe essere possibile. Purchè i profili siano all’altezza e non si assumano i soliti raccomandati.
Cosa rispondono i sindacati alle richieste legittime di parametrare gli incrementi di stipendio alla produttività? Non sono accettabili risposte di “benaltrismo”, come se i problemi fossero sempre di altre categorie.
Ai vertici dello Stato devono sedere i migliori. Senza persone di qualità, le istituzioni non potranno fornire alle imprese e ai cittadini i servizi necessari ad una legittima civile convivenza.
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