29-7-23
Una riflessione scritta dal Presidente Beniamino A. Piccone per Milano Finanza.
A 50 anni dalla morte (27 luglio 1973) del banchiere Raffaele Mattioli, prima amministratore delegato, poi presidente, per tanti anni, della Banca Commerciale italiana, è quanto mai opportuno ricordarlo. Come ha scritto Milan Kundera, “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio” (Il libro del riso e dell’oblio, Adelphi, 1998).
Mattioli è stato un protagonista indiscusso dell’economia italiana dal primo dopoguerra al 1972, quando la partitocrazia – in particolare la DC andreottiana – lo sostituì con Gaetano Stammati, che non solo nel 1981 si vide nell’elenco degli iscritti alla P2 di Licio Gelli, ma in precedenza (1976-1978) fu Ministro del Tesoro in anni in cui la spesa pubblica corrente volava: mentre Paolo Baffi dalla sua poltrona indifesa di Governatore della Banca d’Italia cercava di contenere la smania distorsiva keynesiana, Stammati e il suo fido sottosegretario Ferdinando Ventriglia sfondavano il conto corrente di Tesoreria. E oggi ne paghiamo le conseguenze, visto che l’accumularsi dei deficit ha portato a un debito pubblico mostruoso che grava sulle future generazioni.
Raffaele Mattioli è stato colui che ha contribuito al risanamento delle banche pubbliche, colpite negli anni Trenta dalla “mostruosa fratellanza siamese” con le imprese finanziate e di cui erano anche malauguratamente azioniste. Solo con la creazione nel 1933 dell’Istituto per la ricostruzione Industriale (IRI), l’economia italiana si riprese. Mattioli, poi, nel secondo Dopoguerra respinse il termine «miracolo economico»: «miracles are ceas’d» viene voglia di ripetere con Shakespeare. Lo sviluppo degli anni Cinquanta non avrebbe dovuto sorprendere: era stato realizzato grazie a un disegno ben preciso, alla volontà di riscatto della società italiana. Certamente contò anche il contesto internazionale favorevole. Le ragioni del successo erano le seguenti: costi contenuti degli input (energia e lavoro); migliori infrastrutture; riserve di manodopera, anche qualificata; basso debito pubblico; riallocazione di risorse dall’agricoltura all’industria; legame dinamico tra produttività, investimenti (altissimi) ed esportazioni. Nella relazione agli azionisti del 1961 Mattioli riassunse la sua interpretazione della fase di sviluppo coniugando diversi elementi: la base industriale solida, anche se gravemente danneggiata dalla guerra, il Piano Sinigaglia che sbloccò la strozzatura della siderurgia, gli aiuti ben gestiti del Piano Marshall, la stabilizzazione monetaria del 1947 (linea Baffi-Menichella, con la firma di Einaudi) che consentì la rimessa in ordine dei conti, la fine dei dazi doganali e l’apertura internazionale.
Mattioli si fece promotore dell’analisi del merito di credito che deve essere messo al centro di ogni valutazione, non esclusivamente quantitativa (conta il fattore umano, le visite aziendali). Luigi Einaudi segnalava che «ufficio del banchiere è invero quello di affidare denari altrui all’uomo capace e probo, il quale sappia farli fruttare a proprio vantaggio e, al momento stipulato, li restituisca. Solo i fatui possono immaginare che questo sia un compito facile. Nel mondo economico non ne esiste altro più difficile». «Tutte le brave e alacri imprese», secondo Mattioli, devono ricevere dalla banca «appoggio ampio e adeguato». Fondamento della scelta del banchiere, sempre secondo lui, è la valutazione della capacità di rimborso: «Paradossalmente, potrebbe dirsi che l’estinzione del fido è ciò che ne rivela la qualità nativa. E proprio per questo […], prima di concedere un fido, bisogna guardare il cliente da tutte le parti, davanti e di dietro, di sopra e di sotto, di fuori e di dentro. […] Bisogna cioè arrivare a capire di dove salteranno fuori (o magari sgoccioleranno!) i soldi per estinguere effettivamente il debito» (G. Rodano, Il credito all’economia, edizioni Ricciardi).
Mattioli vide con lungimiranza: «Il depositante non sembra rendersi conto che la sua protezione più efficace non sono i mezzi propri della banca, ma la sua solidità di giudizio nel concedere crediti». E ancora: «Ci vuole capacità di ascolto, volontà di capire, senso di partecipazione, «fatica e patemi, discernimento e coraggio, entusiasmo e nervi a posto. Senza questo assurdo conglomerato di affetti e qualità contraddittorie, senza questo “ottimismo” di fatto e non di umore, si diventa burocrati. E l’esercizio del credito non è un’attività burocratica. La nostra è un’attività pratica puramente intellettuale – mediatrice e conciliatrice di una astrazione di ordine meccanico con una concretezza di ordine biologico».
Mattioli si circondò di collaboratori di primaria levatura, in primis Giovanni Malagodi e il “filosofo domato” Antonello Gerbi – direttore dell’Ufficio Studi – che fece rifugiare in Perù per sottrarlo alle leggi razziali. Ai fini della storia bancaria appaiono formidabili le routines ideate da Malagodi per impostare e uniformare, nelle filiali, attività professionali quali lo sviluppo della clientela, media e piccola, e l’analisi del “merito di credito”. Il culmine è ritenuto il modulo 253, questionario per l’analisi dei clienti richiedenti i fidi, steso in ventiquattr’ore da Malagodi, e più tardi emulato nella sostanza dalle altre banche italiane.
Secondo Mattioli, il sistema bancario avrebbe dovuto spingere di più gli imprenditori – in alcuni casi definiti “senescenti minorenni – a trovare risorse sul mercato. Il «banchiere umanista» Raffaele Mattioli credeva molto nella figura dell’operatore di venture capital e di private equity. Senza tali figure il «problema dell’adeguatezza dei mezzi propri delle imprese» rimarrebbe inevaso sul tavolo, mortificando le possibilità di crescita delle imprese stesse. Si potrebbe pensare che con imprese meglio capitalizzate, con una parte di attivo liquido pronto per le fasi critiche e con banche meno prese in contropiede dalla scarsa rappresentatività dei bilanci, oggi avremmo meno non performing loans, meno partite incagliate e sofferenze.
Per Mattioli valgono le parole scritte da Luigi Spaventa per Paolo Baffi: “A maestro di vita lo hanno promosso la sua opera in vita, l’insegnamento che ha dato in parole e in azioni, i suoi scritti, il suo dubitare laico e la sua laica tolleranza («La Repubblica», 7 aprile 1990).
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