Un articolo scritto dal Presidente Beniamino A. Piccone per la Gazzetta del Mezzogiorno.
Vi consiglio la lettura del volume di Roger Abravanel appena uscito: Ariatocrazia 2.0 (Solferino).
La rinascita dell’Italia parte dalle sue élite
Mentre il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi cerca il sostegno delle forze parlamentari necessarie alla fiducia, ci sono alcuni soggetti che vivono ancora in un universo parallelo. Uno di questi è Alessandro Di Battista, co-leader del MoVimento 5 Stelle, il quale ha definito Draghi – il cittadino italiano più stimato al mondo – l’“apostolo delle élite”. Come dire, un soggetto da denigrare.
E’ l’occasione quindi per parlare del disastro culturale portato dal grillismo che ha consentito l’ascesa del prestigio sociale data dall’ignoranza. La massima nefandezza sesquipedale è il motto “uno vale uno”. Si, come no, Ciampi vale Salvini, Draghi vale Di Maio. Senza sapere non si evolve e per sapere bisogna studiare.
Un volume appena uscito, “Aristocrazia 2.0” (Solferino, 2020) di Roger Abravanel – director emeritus di McKinsey – ci viene in soccorso perché spiega lucidamente come il BelPaese abbia bisogno – per tornare a crescere – di una nuova classe dirigente, di una élite non elitista. L’“Aristocrazia 2.0” è rappresentata dalle “nuove generazioni del merito”, crede che l’accesso alla migliore istruzione sia la migliore eredità possibile, crede in valori forti e ha fiducia negli incentivi dati dalla competizione.
Abravanel anni fa scrisse il volume “Meritocrazia”, un atto coraggioso in un Paese che premia più la fedeltà che la franchezza, più il familismo che l’efficienza. Visto che nel mondo il concetto di meritocrazia è sotto attacco (Michael Sandel, professore di filosofia ad Harvard, ha scritto “La tirannia del merito”), gli intellettuali de’ noantri ci spiegano che il merito è negativo. Ma noi italiani la meritocrazia non l’abbiamo mai vissuta. Aveva ragione il compianto Edmondo Berselli, noi siamo sempre post (“Post italiani, Cronache di un Paese provvisorio”, Mondadori, 2004) oltre, senza aver vissuto il fenomeno primario. L’assenza di meritocrazia è una delle cause primarie del drammatico declino della nostra economia (notizia recente è il premio di risultato dato al personale della scuola che ha lavorato in presenza nel mese di marzo, quando gli studenti erano a casa in didattica a distanza: complimenti!).
Secondo Abravanel, “se la meritocrazia ha fallito nel realizzare le pari opportunità, ha però creato milioni di buone opportunità per una generazione di giovani che hanno cercato la migliore istruzione e ottenuta una vita più agiata di quella dei propri genitori”. Dare la colpa dell’ineguaglianza alla meritocrazia è ingeneroso poiché non tiene conto del contributo dato dal merito alla mobilità sociale, fortissima nel XX secolo e ai milioni di posti di lavoro creati dagli aristocratici 2.0, fondatori delle imprese più innovative del mondo.
L’Italia ha avuto successo nel Dopoguerra perché il sistema industriale ha funzionato molto bene, sia nel pubblico che nel privato. Ma siamo stati incapaci di passare all’economia dei servizi ed oggi all’“economia della conoscenza”. Le imprese – spesso familiste e non familiari – non sono in grado di creare “high value jobs”, quelli pagati bene. E infatti in Italia con la produttività bassa le imprese pagano salari ben inferiori a quelli europei. In Corea il 70% delle persone sono laureate e vengono assorbite tutte dal sistema economico, che è fondato sui talenti.
L’Italia ha una classe dirigente inadeguata, definita da Abravanel “aristocrazia 1.0”, una classe privilegiata, con tratti feudali e corporativi, dove i genitori passano immobili, denaro e imprese ai figli. Quella descritta magistralmente da Edward Banfield (“Le basi morali di una società arretrata”, cit.). Domina il familismo amorale, gli individui massimizzano unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo.
L’élite di cui abbiamo bisogno è una classe meritocratica, il più possibile responsabile e aperta, inclusiva, non egoista e distante dai bisogni della nazione. Se ci pensiamo bene, Mario Draghi, che ha perso presto entrambi i genitori, e ha studiato come un forsennato dai gesuiti, poi alla Sapienza con Federico Caffè e poi al Mit a Boston con Stanley Fischer, Robert Solow e Franco Modigliani è proprio un “aristocratico 2.0”.
Passare dalla “Cretinocrazia” grillina all’”Aristocrazia 2.0” non sarà facile. Gli oppositori sono numerosi, per esempio i docenti universitari, che non accettano di essere valutati, o la magistratura che non accetta “check and balances”, o la burocrazia, vera e propria nemica delle imprese. Ma non esistono scorciatoie per tornare ad avere fiducia in un Paese che oggi, purtroppo, incentiva i suoi giovani migliori ad andarsene.
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