Mercoledì 14 settembre abbiamo ospitato Massimo Nicolazzi (accompagnato da Anna Reyden, sua collaboratrice) al Grand Hotel et de Milan.
La serata è stata molto vivace. Nicolazzi, una vita nel mondo petrolifero, ha cercato di spiegare come l’eccesso di offerta (oil glut) di petrolio caratterizzi il mercato energetico degli ultimi anni. La causa non sta tanto nella decelerazione dei consumi di petrolio (pur accaduta, soprattutto dal lato cinese) quanto dal netto aumento di produzione del mondo americano/canadese. L’esplosione del fracking (frantumazione delle rocce impermeabili) e della produzione shale oil risultante, gli americani sono diventati esportatori (è stata cambiata anche una legge per consentire loro di farlo) invece che importatori.
Da qui il forte calo del prezzo del petrolio. Questo dimezzamento ha in qualche modo impattato sul livello dei prezzi e dell’inflazione. Quando le banche centrali di tutto il mondo hanno implementato politiche di quantitative easing – acquistando dagli intermediari creditizi titoli di stato e obbligazioni societarie – hanno cercato di stimolare il credito languente e, in tal modo, ancorare le aspettative di inflazione future a un livello superiore. Il rischio di deflazione è incipiente, soprattutto con le riforme strutturali che non procedono in modo molto lento.
Da segnalare che se i Paesi produttori ricavano meno dalle loro riserve di petrolio, meno domanda di consumo (e quindi minori esportazioni) viene da quei Paesi. Oltre ai possibili riflessi sul la stabilità politica (primavera araba già finita?). Vi segnalo un mio contributo sul rapporto tra prezzo del petrolio e democrazia http://fausteilgovernatore.blogspot.it/2014/12/il-prezzo-del-petrolio-putin-e-i.html
L’avvocato Colasurdo – nel corso del botta e risposta – ha segnalato l’accordo (di qualche giorno fa) tra Arabia Saudita e Russia diretto a controllare in qualche modo l’offerta di petrolio, per evitare scossoni ribassisti.
Interessante anche l’intervento di Anna Reyden che ha spiegato come gli strumenti finanziari passivi – ETF, Echange Traded Fund – sulle commodity pagano il dazio della divergenza tra prezzi a pronti e prezzi a termine. A seconda dell’inclinazione della curva dei prezzi a termine ci si può trovare in contango o in backwardation. In alcuni casi l’investitore passivo – a sua insaputa (come il ministro Scajola, ve lo raccomando) – si trova a comprare, ogni volta che scade un contratto future, un quantitativo inferiore di contratti. E ne esce con meno soldi in portafoglio (“conoscere per deliberare”, Luigi Einaudi, cit.).
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